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"Viaggio al termine della notte": la miseria dell'essere umano secondo Céline

di Anna Grespan



“Ce qui est pire c'est qu'on se demande comment le lendemain on trouvera assez de force pour continuer à faire ce qu'on a fait la veille et depuis déjà tellement trop longtemps, où on trouvera la force pour ces démarches imbéciles, ces mille projets qui n'aboutissent à rien, ces tentatives pour sortir de l'accablante nécessité, tentatives qui toujours avortent, et toutes pour aller se convaincre une fois de plus que le destin est insurmontable, qu'il faut retomber au bas de la muraille, chaque soir, sous l'angoisse de ce lendemain, toujours plus précaire, plus sordide. […] On n'a plus beaucoup de musique en soi pour faire danser la vie, voilà.”


Partiamo con una citazione lunga e per giunta in francese. Ecco a voi un ottimo modo per scoraggiare la lettura di un testo. Il fatto è che pensiamo non esistano parole migliori per introdurvi al ritmo irregolare, frastagliato e stridente di Voyage au bout de la nuit (1932). La musica evocata dall'estratto iniziale non ha più la forza per “far danzare la vita”, che viene descritta come un misero agglomerato di “corse imbecilli, mille progetti che non portano a niente, tentativi per uscire da un'opprimente condizione di bisogno”. Queste poche righe ci immergono velocemente ed irrimediabilmente nell' “angoscia sempre più precaria” del domani: il sentimento che domina questo capolavoro di Louis-Ferdinand Céline (1894-1961).

La vicenda personale dello scrittore ci pone davanti all'eterno dubbio circa la relazione tra l'autore e l'opera: è giusto giudicare un libro a partire dalla vita e dalle idee di chi l'ha scritto? Il grande critico, linguista e semiologo francese Roland Barthes parlava di “morte dell'autore” per indicare la totale prevalenza della scrittura, del linguaggio, sulla persona che dà vita all'opera. La rilevanza di un testo, dunque, non si trova nella sua origine, ma nella sua destinazione, ossia il lettore, che interpreta e ricompone ciò che legge; per farlo, però, liberamente ha bisogno di distaccarsi il più possibile dall'ombra dell'autore. Questo il pensiero di Barthes che ci permette di trattare Voyage au bout de la nuit come uno dei romanzi più incredibili del '900, nonostante colui che ce l'ha donato, sia stato accusato di antisemitismo e di aver collaborato con il governo nazista di Vichy. Le convinzioni filo-razziste di Céline emergono in particolar modo nei suoi pamphlet Mea culpa (1936), Bagatelles pour un massacre (1937), L'école des cadavres (1938) e Les beaux draps (1941). Dopo la Seconda Guerra Mondiale, lo scrittore viene esiliato in Danimarca, dove resterà fino al 1951. Ovviamente, la discriminazione nei confronti del popolo ebraico non è assolutamente condivisibile, ma bisogna ammettere che questa ideologia abominevole non gli ha impedito di creare uno stile unico nella storia della letteratura.

Voyage au bout de la nuit non presenta una vera e propria divisione in capitoli, in quanto gli eventi vengono narrati senza delle interruzioni precise; per questo, il romanzo appare come un flusso continuo di episodi che non sono sempre direttamente collegati tra loro. Si potrebbe parlare, quindi, di un'opera di rottura e frammentazione. Sono identificabili quattro parti distinte, che si riferiscono alle tappe del viaggio del protagonista Bardamu: il fronte durante la Prima Guerra Mondiale, l'Africa coloniale, l'America del nord e la periferia parigina.

All'inizio del libro, seguiamo Bardamu tra le atrocità della guerra: il personaggio principale, infatti, diventa testimone involontario della violenza dell'uomo, che nell'atto di combattere per sopravvivere mostra la sua vera natura crudele e criminale. Questa l'idea di base che abita le pagine di Céline: gli individui sono essenzialmente malvagi ed egoisti, e queste loro caratteristiche affiorano soprattutto in occasione di avvenimenti terribili, come la guerra e la malattia. Probabilmente, l'autore è stato influenzato da uno scritto di Sigmund Freud intitolato Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915), nel quale, analizzando l'esperienza traumatizzante della Prima Guerra Mondiale, si pone l'accento sull'istinto primitivo dell'uomo di uccidere.

La partenza per l'Africa avrebbe potuto rappresentare una liberazione dall'orrore del conflitto mondiale, invece si rivela solamente un incontro ravvicinato con lo sfruttamento coloniale, la febbre, la diarrea e il caldo asfissiante; quasi a sottolineare l'impossibilità per l'essere umano di fuggire alla sua misera sorte.

Bardamu sembra voler indagare gli angoli più remoti e oscuri dell'umanità, per questo, in seguito all'esperienza africana, decide di trasferirsi nella città di Detroit, diventando operaio presso lo stabilimento Ford e continuando, di fatto, il suo percorso nell'infelicità dell'uomo. Il lavoro in fabbrica, infatti, lo immerge nella cosiddetta alienazione, ossia quella condizione di scissione da se stessi che il grande filosofo Karl Marx aveva definito come caratteristica propria del proletariato nella società capitalista. Nel passaggio che riportiamo qui sotto, Bardamu descrive questa nuova solitudine, dopo quella brutale dell'Africa, come ancora più terribile: la frenesia di ciò che lui chiama “formichiere americano” lo mette davanti alla dura realtà del suo “niente individuale”.


“En Afrique, j'avais certes connu un genre de solitude assez brutale, mais l'isolement dans cette fourmilière américaine prenait une tournure plus accablante encore. Toujours j'avais redouté d'être à peu près vide, de n'avoir en somme aucune sérieuse raison pour exister. À présent j'étais devant les faits bien assuré de mon néant individuel.”


L'unica consolazione alla vita alienata della fabbrica e della metropoli è la relazione con la prostituta Molly, che, però, è un semplice diversivo per Bardamu, in quanto, a causa del suo stato di insoddisfazione e precarietà, non riesce a provare dei sentimenti forti e a legarsi seriamente alla donna.

Non sarà difficile abbandonare Molly per tornare in Francia, dove si dedicherà alla professione di medico nella periferia di Parigi. La scelta del luogo non è casuale: Bardamu continua la ricerca del dolore in tutte le sue forme e le zone più povere di una città offrono lo scenario perfetto per raggiungere “il termine della notte”, in altre parole gli aspetti più bui della natura umana. Il ruolo di dottore si addice benissimo al protagonista, che racconta le vicende da lui vissute senza alcuna partecipazione personale: il narratore è ridotto ad un osservatore distaccato, che riporta i fatti con freddezza. Questa apatia gli permette di curare i pazienti evitando ogni tipo di coinvolgimento emotivo e il mutismo che ne deriva spinge molti degli altri personaggi ad aprirsi con lui, esternando sofferenze, problemi e pensieri. La passività di Bardamu potrebbe innervosire qualche lettore e sicuramente non ci porta ad empatizzare con lui, ma lo scopo di questo atteggiamento è un altro: il narratore è interno, però allo stesso tempo, assume la caratteristica più rilevante di un narratore esterno, ossia l'obiettività. La totale rassegnazione davanti alla miseria umana, e l'immobilità che ne consegue, offrono a Bardamu la possibilità di analizzare il male circostante in maniera neutra e imparziale. Si rimane, quindi, spiazzati davanti all'estrema lucidità alla base delle riflessioni céliniane.

L'impotenza di fronte al dolore cronico è uno dei temi principali del romanzo: i personaggi sono coscienti delle vite vuote nelle quali sono imprigionati, ma non tentano di liberarsi, perché travolti da quella forza cieca che conduce tutti gli uomini verso il male inesorabile. Questa visione è indubbiamente negativa e cinica, ma l'obiettivo di Céline non è quello di proporre una morale o una soluzione. Céline non è un riformatore, intende solamente dimostrare cosa si nasconde dietro a certi avvenimenti apparentemente inspiegabili, che non sono altro che il frutto dell'indole ostile dell'uomo.

In mezzo alla crudezza dei fatti e delle persone che popolano il libro, c'è spazio per la poesia. Poesia intesa come uso non lineare del linguaggio, che evoca umori e suggestioni particolari. Per esempio, Céline è molto attento alla lingua utilizzata dai suoi personaggi e molti di essi si esprimono in argot, il gergo degli strati più disagiati della società francese. Questa scelta rende più realistico l'intero racconto e trasmette in modo ancora più diretto, senza la mediazione di un certo tipo di letteratura fin troppo elaborata, l'angoscia del vivere quotidiano. Anche il linguaggio, quindi, rispecchia l'asprezza dell'immenso e vario quadro umano dipinto da Céline. Nonostante questa malinconia di fondo, alcuni passaggi in cui l'autore distribuisce sapientemente le parole, costruiscono immaginari che risultano comunque poeticamente affascinanti:


“Je retrouvai la terre peu d'instants plus tard et la nuit, plus épaisse encore sous les arbres, et puis derrière la nuit toutes les complicités du silence.”


Nella sequenza sopra citata, la dimostrazione di come la bellezza si possa riscontrare anche nella descrizione di un inferno grazie alla magia della lingua: la “notte spessa” è ancora una volta il simbolo della disperata condizione dell'uomo, e al di là di essa “le complicità del silenzio”; la sensazione visiva del buio e quella uditiva dell'assenza di rumori sottolineano, coinvolgendo due sensi differenti, il vuoto spaventoso che pervade il nostro tempo.

Tramite l'immersione veritiera e senza sconti nei drammi del suo secolo, cioè le guerre mondiali, il colonialismo e il capitalismo, Céline rende evidente l'insensatezza, l'indifferenza e la crudeltà del mondo in cui vive e la risposta che cerca di dare a tutto questo non è la solita indignazione moralista e ipocrita. Al contrario, Céline quasi non risponde, lo scopo è solo mostrare concretamente lo stato delle cose, senza sbraitare o dimenarsi, ma rimanendo inermi come tutti gli altri esseri umani che, “nel loro stesso rumore, non comprendono nulla e se ne fottono”:


“Ils poussaient la vie et la nuit et le jour devant eux les hommes. Elle leur cache tout la vie aux hommes. Dans le bruit d'eux-mêmes ils n'entendent rien. Ils s'en foutent. […] Je vous le dis moi. J'ai essayé. C'est pas la peine.”



Note bibliografiche

Barthes, R. (1988), Il brusio della lingua, Torino: Einaudi.

Céline, L.-F. (1932), Voyage au bout de la nuit, Paris: Gallimard.

Nettelbeck, C. (1972), “The Antisemite and the Artist: Céline's Pamphlets and Guignol's Band”, Australien Journal of French Studies.

Smith, A. (1973), La nuit de Louis-Ferdinand Céline, Paris: Grasset.







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