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  • Immagine del redattoreLe Due Frida

Rising di Marina Abramović

di Aurora Scremin

Nel corso degli ultimi vent’anni, a causa del riscaldamento globale dovuto alle attività umane, la velocità dello scioglimento dei ghiacciai nel mondo è quasi raddoppiata. A rivelarlo è uno studio pubblicato su Nature, il 28 aprile 2021. Quella del cambiamento climatico è, di fatto, una questione urgente, periodicamente al centro dei servizi televisivi, eppure non presa mai abbastanza sul serio.

L’arte contemporanea, sempre più spesso, si pone come mezzo di comunicazione di tale problematica: essa ha il potere di sensibilizzare il pubblico e di condurlo ad un processo di autoriflessione e di reazione. Nel 2017, la celebre performance artist Marina Abramović prende parte al progetto di Acute Art, un laboratorio curatoriale e un centro di ricerca che offre agli artisti accesso a tecnologie di avanguardia che consentono loro di tradurre la loro visione creativa in nuovi media digitali, tra cui le realtà virtuali, aumentate e miste. Il frutto di questa collaborazione è Rising, realtà virtuale presentata a Venezia, presso la Ca’ Rezzonico Gallery, nel 2019, in una sezione autonoma e parallela alla Biennale d’Arte Contemporanea, May You Live in Interesting Times. In un contesto artistico dalla duplice natura, che da una parte evoca l’idea di un periodo di incertezza “minaccioso e pauroso” e dall’altra offre gli strumenti per meglio comprenderlo, l’opera della Abramović trova la sua perfetta collocazione.

L’artista non aveva mai lavorato prima con la realtà virtuale, tecnologia che, di primo acchito, potrebbe sembrare inconciliabile con la sua ricerca di un contatto con il pubblico; tuttavia essa nasconde una particolare capacità di creare una relazione profonda con lo spettatore.


“Siamo abituati a vedere l’arte da un punto di vista intellettuale, sempre da un punto di vista cerebrale e tendiamo a dimenticare che l’arte deve smuoverti dentro, deve essere emotività che parte dallo stomaco. E questo è l’aspetto dell’arte con cui ho a che fare maggiormente, così come in ogni situazione quando creo, dono tutta me stessa e penso che in questo modo la mia vulnerabilità messa a nudo abbia il potere di aprire la tua vulnerabilità di spettatore e quindi farti aprire a me.”


Questo è quanto afferma la Abramović nel libro Dr. Abramović di Francesca Baiardi, pubblicato in allegato al DVD del documentario Marina Abramović: The Artist Is Present di Matthew Akers. Per tutta la sua carriera artistica, Marina ha utilizzato il proprio corpo come principale medium di comunicazione, come strumento fondamentale per stabilire, durante le sue performance, quello che lei definisce un «energy dialogue» con il pubblico, volto alla trasformazione della mente e del corpo. Pur essendo trasportato in una dimensione digitale, anche in Rising, il corpo dell’artista rimane parte integrante dell’opera.

Lo spettatore, munito di un visore e di un joystick ad hoc, viene immerso in uno spazio chiuso e poco luminoso; successivamente, si trova faccia a faccia con l’avatar dell’artista, racchiuso all’interno di una teca di vetro che si sta lentamente riempiendo d’acqua.

Marina posa i palmi delle sue mani sul vetro ed invita lo spettatore a mettersi in contatto con lei. Attraverso una dissolvenza al bianco, lo spettatore viene improvvisamente catapultato su una piattaforma di legno, nel bel mezzo del Mar Artico, ai piedi di un imponente ghiacciaio. È notte ed il cielo è ricoperto di stelle e attraversato dalle luci colorate dell’aurora boreale. Ben presto, però, il cielo si fa nuvoloso e scoppia un forte temporale, accompagnato da fulmini, vento e pioggia. Lo spettatore assiste alla progressiva disgregazione del ghiacciaio, che fa crescere sempre più il livello del mare intorno a lui, fino a sommergerlo completamente. Qui, pur cosciente di trovarsi in una situazione virtuale di pericolo, egli reagisce in maniera reale, come se fosse fisicamente “presente” a quell’evento catastrofico: il battito cardiaco accelera, il respiro si fa affannoso.

Con una dissolvenza al nero, lo spettatore torna nello spazio iniziale, trovandosi di fronte all’avatar dell’artista, completamente sommerso dall’acqua, che emette lamenti e che invano si dimena per non annegare.


“Join Rising. The time to act is now. Be part of it.”


Rising si conclude con questa frase, che invita ad agire, a riconsiderare il proprio impatto sul mondo e ad impegnarsi a salvarlo.

Marina Abramović ha voluto creare una specie di videogioco in realtà virtuale che coinvolgesse una grande quantità di partecipanti, in particolar modo le nuove generazioni. All’inizio della sua carriera, Marina aveva un’opinione negativa rispetto alla tecnologia e alle sue possibilità: la considerava una sorta di ostacolo al raggiungimento della pace interiore. Ora invece il suo approccio alla tecnologia è cambiato radicalmente: sostiene che non ci sia nulla di sbagliato nella tecnologia, ma che ciò che è sbagliato sia il nostro rapporto con essa. Afferma l’artista:


“La cultura occidentale ha preso una strada sbagliata. La tecnologia di per sé non è cattiva se la impieghi per avere più tempo, ma in questo momento non è così. La tecnologia si nutre del nostro tempo e quindi non abbiamo modo per guardare dentro noi stessi, per contemplare, meditare e prenderci spazio.”


Secondo la performance artist, la tecnologia deve essere considerata come uno strumento per creare qualcosa di diverso e di importante. Quando Marina si avvicina alla realtà virtuale, trova in essa qualcosa che ha a che vedere con i limiti del corpo. Per tutta la sua carriera artistica, nei suoi lavori ha cercato di portare i propri limiti, sia fisici che mentali, il più lontano possibile, arrivando però ad un punto, oltre il quale le è risultato impossibile andare.

Con la realtà virtuale, invece, l’artista, per mezzo del suo avatar, scopre di poter fare qualsiasi cosa, all’infinito, e di avere anche la possibilità di essere presente, nello stesso momento, in più parti del mondo.

Nella realtà virtuale non viene messo in gioco solo il corpo dell’artista, ma anche quello dell’utente: è proprio con la sua partecipazione che l’opera virtuale si forma, si completa ed acquisisce significato. Si tratta dunque di un’esperienza immersiva, in cui vengono coinvolti i sensi, come la vista, l’udito e il tatto. Ciò produce nello spettatore la sensazione di essere effettivamente presente nello spazio virtuale, di percepirlo come reale. Questo avviene anche grazie alle esperienze, ed alle emozioni ad esse connesse, che l’utente ha fatto e memorizzato nel corso della propria vita. Anche se non si è mai trovato in un contesto come quello proposto dalla realtà virtuale, egli riesce comunque a provare delle sensazioni autentiche, in quanto il corpo conserva le tracce di un vissuto che, seppur non uguale, è simile in quanto a dinamiche. Le emozioni diventano il punto di connessione, di comunicazione tra il corpo del soggetto e quello del performer.

In Rising, il partecipante in prima persona è testimone visivo di uno scioglimento di un ghiacciaio e viene sommerso dall’acqua del mare. Vive un’esperienza emotiva così forte che comincia a pensare a cosa poter effettivamente fare per cambiare le cose. Abramović afferma:


“The brain and climate change are very connected because once we really take the facts as they are, we will not just sit around and think we are here forever… ‘Rising’ has two meanings: the rising of the water, but also the rising of consciousness.”


Quindi l’aumento del livello dell’acqua, con il conseguente annegamento dell’avatar dell’artista, è direttamente collegato all’aumento della coscienza dello spettatore. Marina Abramović, per provocare una reazione nell’utente, fa appello all’empatia, ossia quella capacità propria dell’essere umano di porsi nella situazione di un’altra persona e di comprenderne lo stato d’animo. Assistendo all’annegamento dell’alter ego di Marina, il partecipante è chiamato ad empatizzare con l’esperienza umana dell’altro e a fare qualcosa per salvaguardare il pianeta. Nonostante l’artista dimostri di avere poca speranza nella risoluzione di quello che, a suo parere, è un processo naturale di autodistruzione impossibile da fermare, sostiene che ognuno, a livello individuale, possa fare concretamente qualcosa per ritardare il più possibile la catastrofe, impegnandosi, ad esempio, nella propria quotidianità a spegnere le luci quando non sono indispensabili, a non sprecare il cibo e a riciclare i rifiuti.

Già nel discorso da lei tenuto a TED, nel marzo 2015 a Vancouver, ribadiva questa sua posizione:


“And I think that human beings right now need a change, and the only change to be made is a personal level change. You have to make the change on yourself. Because the only way to change consciousness and to change the world around us, is to start with yourself.”






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