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  • Immagine del redattoreLe Due Frida

The Snow Hut di Barbara Uccelli

Quattro chiacchiere con l'artista


17 febbraio 2021. Veneto in zona gialla, dunque musei aperti. Perché non approfittarne per andare a Treviso ed infilarsi in uno di essi? Ebbene, è proprio quello che LeDueFrida hanno deciso di fare in una giornata fredda, ma soleggiata, per dare una sferzata di energia alla monotonia della quotidianità, ridotta ormai all’osso a causa delle restrizioni anti – Covid. Nel contesto di [e]Design Festival, organizzato da Luciano Setten, grande promotore del patrimonio culturale ed artigianale del territorio, si è tenuta la mostra Parole di luce. Segni, versi e visioni, presso il Museo Casa Robegan. Le tre sale del museo hanno ospitato le opere di tre artisti, Marco Nereo Rotelli, Barbara Uccelli e Laura Ambrosi, dove parola e luce confluiscono in un insieme poetico.

Abbiamo voluto qui dedicare qualche parola all’installazione The Snow Hut (2020) ideata e creata da Barbara Uccelli. Artista e scrittrice piemontese, si è laureata in Scienze della Comunicazione, per poi dare una svolta artistica alla sua vita studiando da autodidatta e visitando gallerie e musei. Passa dalla regia teatrale alla coreografia, fino ad approdare nel mondo dell’arte, sperimentando diverse pratiche artistiche: installazioni, fotografie, sculture e performance. Barbara, inoltre, si dedica anche alla scrittura, in particolar modo racconti e biografie.

Nel 2016 realizza The Wood, installazione che prende spunto da un’antica tecnica di ricamo, chiamata frivolité o anche chiacchierino, caratterizzata dalla realizzazione di nodi lungo fili di canapa e cotone. Una volta che i fili lavorati vengono distesi in verticale, prendono le sembianze di rami, quasi impalpabili, ognuno dei quali arricchito da foglioline realizzate con la tecnica suddetta. Si viene così a creare una dimensione spaziale che prende la connotazione di un bosco labirintico da attraversare, dove perdersi e trovare vie d’uscita.

Con la medesima pratica, quattro anni dopo, dà vita a The Snow Hut. L’installazione è composta da 1200 fili, intervallati da piccoli nodi scorsoi, tesi in verticale e disposti a forma di capanna. Alla base dell’installazione, tra la rete di fili, è presente un piccolo percorso circolare, definito da un tappeto creato con fibre di lana e lino che sembrano voler riproporre la sensazione di camminare su un manto di neve. Attraverso questo cammino, il visitatore, con il solo ausilio della torcia del telefono, è invitato ad entrare e a perdersi-ritrovarsi nel mezzo di una foresta innevata che, tra luce ed ombra, appare in tutto il suo mistero e, al contempo, in tutta la sua magia. The Snow Hut è un’esperienza sensoriale tout-court: i piedi percepiscono un terreno morbido e confortevole; gli occhi si perdono tra il particolare e l’insieme; la torcia del telefono ci spinge a giocare con le ombre dei fili che si stagliano sulle pareti bianche della stanza; il silenzio è avvolgente, proprio come quello che si percepisce durante una nevicata. Si è immersi in un luogo di scoperta, ascolto, curiosità, talvolta anche di disorientamento e costrizione.

Il visitatore diventa parte integrante dell’opera, entrando in contatto diretto con l’installazione, ma anche chi si trova ad assistere dall’esterno viene travolto dalla bellezza dell’effetto di ombre e luci. Si rimane incantati e sembra quasi di sentire l’emozione, lo spaesamento e il fascino che il visitatore all’interno dell’intreccio di fili sta provando. Quindi, si tratta di un’esperienza duplice: da vivere in prima persona e anche da spettatori delle sensazioni altrui. Insomma, un’opera che è viva e si nutre dell’interazione con un pubblico che dev’essere pronto a lasciarsi andare e diventare protagonista.


Abbiamo avuto il piacere e l’opportunità di porre qualche domanda direttamente a Barbara Uccelli, rispetto a questa specifica installazione e alla sua carriera artistica in generale.


Come e quando è iniziato il suo percorso artistico?

Penso quando avevo dieci anni, la prima volta che sono salita sul palco con una parte da solista nel saggio della scuola di danza che frequentavo. Sai, quando sei sola in scena e tutto dipende solo da te, capisci che puoi fare qualcosa per te oppure decidere di fare qualcosa per chi guarda. E io ricordo, nel panico della prima volta, che per bloccare la paura della perfezione dell’esecuzione, pensai a cosa rappresentavo e perché ero lì. Io ero la fata dei fiori e dovevo far sbocciare i boccioli interpretati da bimbe più piccole di me. Penso che il mio percorso artistico sia cominciato allora, nella consapevolezza che se fai qualcosa perché venga mostrata in pubblico, allora devi farla bene e devi avere uno scopo. Non associo il percorso artistico solo al fare mostre, ma alla responsabilità di avere un pubblico, per questo penso che molti di noi perseguano un percorso artistico senza nemmeno averne il sentore. Non ho mai apprezzato chi dice ciò che vuole nel nome della libertà di espressione, perché da un grande potere come la libertà deriva una grande responsabilità come la scelta, il saper scegliere cosa dire e come parlare agli altri.


Da cosa nasce l’idea di The Snow Hut? Che concetto sta alla base di questa installazione? Cosa voleva suscitare nell’animo dello spettatore?

The Snow Hut è una mostra d’inverno. Doveva inaugurare a febbraio 2020, poi è slittata a novembre 2020. Volevo portare il fuori nel dentro, fare una capanna di neve in un salone delle feste. Poi l’installazione si è modificata, dopo un anno di incertezza, paura e dolore, volevo che i visitatori della mia opera ritrovassero la leggerezza, affrontando la realtà come da bambini, dove la disperazione più assoluta svanisce davanti ad una nevicata. E così ho costruito una capanna più alta, perché chi ci entrava si sentisse delle dimensioni giuste, quindi più grande del normale per sentirsi alto come un bambino. E il pavimento doveva essere accogliente, morbido e caldo e la luce doveva diventare un gioco di ombre.

L’opera è una riflessione sulla leggerezza, non un pensiero immateriale, ma un’espressione tangibile e materica della leggerezza. Milan Kundera ha un bellissimo passaggio sulla leggerezza e sulla pesantezza e conclude che la leggerezza è molto più faticosa della pesantezza, quasi più gravosa nel senso di difficile da sostenere.

Essendo io un artista concettuale, strutturo ogni mia opera prima con le parole (significante e significato) e poi nella sua realizzazione fisica. E la capanna di neve è l’oggetto che tiene al sicuro dalla tempesta dei brutti sogni. Il suo bianco, la sua trama che protegge lo sguardo ma anche lo porta fuori, l’accogliente suolo che invita a rallentare il passo fino alla stasi. Entrare nella capanna di neve è essere osservati nella propria privacy, perché il visitatore diventa parte dell’opera, ma è così divertito e concentrato nell’osservare che non si accorge di essere diventato elemento dell’opera d’arte. Mi piace che il visitatore di una mostra non sia giudicante verso se stesso, ma sia ricettivo e curioso. L’opera poi potrà piacergli o meno, ma l’importante è che si incuriosisca e dedichi del tempo per esplorarla.


Dove ha imparato la tecnica del frivolité? Gliel’ha tramandata qualcuno in particolare?

Questa antica tecnica di ricamo è una tradizione della mia famiglia da generazioni. Mia nonna ha sempre cercato di insegnarmela, quando io ero piccola, ma io preferivo andare fuori ad arrampicarmi sugli alberi che stare in casa a ricamare. Poi da grande, quando mia nonna stava ormai male, ho capito che se non imparavo io questo antico ricamo, la tecnica sarebbe scomparsa con lei. Mia madre anche la conosce e mi ha accompagnato quando mia nonna non c’era più. Il frivolité è un ricamo francese che in italiano si chiama chiacchierino, perché quando le donne fuori dall’uscio si sedavano sulla sedia la sera e iniziavano a ricamare (la spoletta nella quale scorre il filo produce un leggero cicaleccio), producevano suoni che sembravano chiacchiere sottovoce. È un ricamo molto difficile e prezioso, serve per decorare i corredi da sposa, per i centri, tovaglie, lenzuola, ma anche colletti degli abiti. È un lavoro bidimensionale perché va steso su qualcosa: un letto, una tavola, un collo. Io invece a forza di fare pratica con metri e metri di nodi scorsoi, un giorno ho sollevato il filo in verticale e ho dato a quel lavoro bidimensionale una terza dimensione. Sono nati così gli alberelli di filo che sospendono nella loro lunghezza foglioline o fiocchi di neve cristallizzati.


Visto che il nostro sito tratta anche di letteratura, siamo rimaste molto colpite da un'altra performance da lei realizzata: Writers. Ci parli un po' di questo progetto e della scelta non convenzionale di porre in evidenza gli ultimi momenti della vita di queste note scrittrici.

Il progetto Writers è un lavoro complesso che ho realizzato molti anni fa. Consiste in un progetto fotografico e video, uno performativo e uno installativo. Per un anno circa ho studiato le biografie di scrittrici che erano morte suicida, poi ne ho scelte cinque: Cvetaeva, Plath, Kane, Woolf, Sexton. Ho scelto loro per la storia che le accomunava: erano tutte donne di grande carisma, che volevano essere padrone della loro vita fino all’atto finale, scegliere il come e il quando. Ogni scatto è stato realizzato nel mio studio, davanti a un semplice muro di mattoni colorato di bianco, poi per ognuna di loro ho selezionato solo gli oggetti essenziali e mi sono vestita interpretando, in una serie di performance, ognuna di loro nel momento ultimo della loro vita. Ogni foto è un autoscatto, io stessa tengo in mano lo shoot della macchina fotografica (shoot che significa in inglese anche sparo). In uno spazio asettico e uguale per tutte, ognuna di loro realizza l’ultima azione frizzando in una fotografia l’istante prima della fine. Gli elementi presenti in ciascuna fotografia sono gli oggetti del loro suicidio: una sedia e una corda, un vassoio con un bicchiere e un blister di pillole, una cucina a gas, il sedile di un’auto, l’acqua che allaga lo studio.

Era importante partecipare in prima persona con la performance, perché le mie donne non dovevano assomigliare fisicamente alle protagoniste, ma mostrare lo spirito, l’intenzione. Ogni scatto è stata una performance a sé stante. La più difficile per me, quella di Silvya Plath: avevo già mia figlia allora e ogni volta che mi inginocchiavo accanto alla cucina a gas, sentivo un pianto di bambino provenire dalla stanza. Ma non era possibile perché il mio studio è una costruzione senza stanze attigue. Era importante che nessuna di loro esprimesse un sentimento nello scatto, ma ogni volta che sentivo il pianto del bambino, le mie guance si rigavano di lacrime e così non potevo scattare. Le Writers sono state un lavoro molto introspettivo, ed è stata molta complessa l’azione di pulizia, perché tutto mi sembrava necessario. Dopo molto tempo lasciato passare tra lo studio e la realizzazione delle opere, ho potuto conservare solo l’essenziale. Penso che in un lavoro artistico trovare l’essenziale sia il fondamento della ricerca.

Virginia Woolf Silvya Plath Anne Sexton

Sarah Kane Marina Cvetaeva


Una delle scrittrici protagoniste di questa performance è Virginia Woolf. Abbiamo avuto il piacere di assistere alla trasposizione teatrale di Mrs. Dalloway al Teatro Olimpico di Vicenza: idea sicuramente di difficile realizzazione, ma secondo noi ben riuscita. Durante la sua carriera artistica ha avuto modo di fare esperienza anche come regista teatrale. Qual è il suo rapporto con il teatro? La ritiene una forma d'arte che influenza in qualche modo il suo lavoro?

Ho lavorato un po’ di tempo per Luca Ronconi. Ho fatto la mia tesi di laurea su un impianto scenico e sulla struttura concettuale di un’opera che Ronconi mise in scena al Lingotto di Torino: Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Krauss. Amavo il suo spirito di non usare sempre testi teatrali per il teatro, ma mettere in scena romanzi o testi storici, epistolari. Ho sempre amato la parola letta, la parola scritta. La parola recitata invece mi crea delle dissonanze. Perché sono fondamentalmente un’egoista e non mi piace entrare nelle immagini che si crea qualcun altro. Diciamo che deve essere davvero bravo per coinvolgermi. Il mio rapporto con il teatro è discutibile. L’ho amato per anni, vedendo tutto il possibile, innamorandomi di Tadeuz Kantor (purtroppo mai visto dal vivo) fino a Robert Wilson. Poi l’ho abbandonato per altrettanto tempo, non vedendo più nulla. Adesso ho fatto pace con quest’arte, le perdono molte cose e mi lascio coinvolgere. Amo il teatro che non mi inganna, perché lì seduta al buio il contratto non scritto è che mi porterà nella mente del regista, e perciò crederò al falso, come un viaggio di espiazione.

Tutto quello che ho fatto e ho visto influenza il mio lavoro, a volte in modo diretto, altre solo come qualcuno che siede nella sala d’attesa. La finzione del teatro mi è servita per capire che amavo la verità della performance. Perché una performance artistica è un’azione reale e il concetto emerge proprio dalla realtà, dalla prossimità tra il corpo e il sentimento.


Quali sono gli artisti, nel senso ampio del termine, quindi intendiamo pittori, scrittori, registi, ecc. dai quali prende inspirazione? Cosa la colpisce in un artista?

L’ispirazione per me è aria che inspiro e trattengo. Non sono solo persone dunque, spesso immagini complesse, a volte un solo sapore si tira dietro un mondo di ricordi. Se di persone devo parlare, allora mi porto appresso quelle solide nei sentimenti, quelle che si sono arrangiate nonostante tutto, quelle che si buttano ancora prima di sapere se ne varrà la pena. Le persone rispettose delle cose animate e inanimate. Poi io non mi lego a un autore, a un artista perché gli esseri umani sono fallaci e io ho paura di essere costantemente delusa. Così mi innamoro delle opere: I sette palazzi celesti, Him, Cretto, La promenade, The Painter, La camera degli sposi, Everyone I slept with, Balcan Baroque, Guernica...(la lista è parecchio lunga).

Per la musica o la letteratura è più difficile fare un elenco, perché le mie preferenze sono temporanee, legate a periodi, e quindi potrei dire cosa mi piace ora. Invece l’arte mi colpisce in modo più universale, nel senso che se un’opera mi piace, mi piacerà per sempre.

Di un artista mi piace quando sa parlare del suo lavoro con umiltà e consapevolezza. Mi piace chi ricerca prima di creare, chi non aspetta un’ispirazione ma va curiosando per anni. Dell’artista mi piace prima la testa del cuore, voglio sapere il perché, il concetto per me è la base dell’opera d’arte. E più si esprime con semplicità nell’opera, più è immediato, più l’opera fa al caso mio.


Qual è la sua idea di arte e quale pensa sia la funzione dell'arte nella società caotica e contraddittoria in cui viviamo oggi?

La più bella frase che mi abbiano mai scritto come dedica è stata: “a Barbara, artista, le cui opere, belle da vedere e da usare, aiutano il mondo a salvarsi”.

Questa è la mia idea di arte: un processo individuale e collettivo che aiuta il mondo a salvarsi.


Ringraziamo Barbara per averci dedicato del tempo. Vi lasciamo qui di seguito i link al suo sito internet e alla sua pagina Instagram per approfondire la conoscenza del suo meraviglioso lavoro.






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