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  • Immagine del redattoreLe Due Frida

Uno sguardo oltre la luce

di Aurora Scremin



Ore 4:30. La sveglia suonò. “Su, Adele, scendi dalle brande e sbrigati”, dissi fra me e me. Ero partita sola con la mia valigia, avevo attraversato l’Oceano Atlantico, trascorrendo ben dodici ore su un aereo, ed ora eccomi in una stanza d’albergo, pronta a fare una delle esperienze più forti della vita.

Mi vestii velocemente e, senza guardarmi allo specchio, uscii prendendo al volo lo zaino. Mi ritrovai circondata dal turbinio delle luci dei negozi e delle insegne pubblicitarie al neon e dall’incessante colore giallo dei taxi. È proprio vero quando si dice che New York è “la città che non dorme mai”.

Imboccai la 53a strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue, e, proprio come prevedevo, mi trovai di fronte ad una moltitudine di visitatori in attesa che le porte del MoMA si aprissero. Mi unii a loro.

Alle 10:30 in punto gli addetti alla vigilanza cominciarono a far defluire la folla all’interno del museo. Varcata la soglia, seguii la fila al primo piano e mi ritrovai nell’atrio di uno dei musei d’arte moderna più famosi al mondo, che in quel periodo stava ospitando la performance The Artist is Present dell’artista Marina Abramović. Alcuni proiettori circoscrivevano in maniera netta un quadrato di luce, al centro del quale si stanziavano due sedie, una di fronte all’altra. Marina Abramović sedeva su una, l’altra era adibita a chiunque volesse interagire con l’artista attraverso il solo sguardo.

Nonostante l’alzataccia del mattino, non riuscii a posizionarmi tra i primi; anzi dovetti aspettare all’incirca quattro ore prima di trovarmi dinnanzi a quella linea di luce, oltre la quale si dava inizio alla performance. Tutt’a un tratto il cuore cominciò a battere prepotentemente contro la cassa toracica, il respiro si fece affannoso, ogni singola parte del mio corpo venne attraversata da un forte tremore. Era il mio turno ed io non ero pronta. Avevo paura. Entrare all’interno di quel perimetro luminoso e sedersi su quella sedia vuota avrebbe significato avere addosso lo sguardo di tutti, sostenere lo sguardo di Marina e lasciarsi andare allo scambio visivo, mettendo in gioco anche la mia vulnerabilità. Ebbi l’impulso di fare marcia indietro, quando il custode disse: “It’s your turn”, posandomi la mano sulla spalla per invitarmi ad “entrare in scena”. A mente vuota e con il terrore negli occhi, andai a sedermi di fronte a Marina.

Nel momento in cui i nostri due sguardi si agganciarono, fu come se il mondo si spegnesse. Tutto sprofondò nel silenzio più totale, eccetto i nostri occhi.

Fu proprio in quello sguardo estraneo che mi ritrovai in tutta la mia fragilità. Così come uno specchio, gli occhi di Marina mi costrinsero a guardarmi dentro, a prendere coscienza di me stessa, delle mie emozioni e sofferenze, troppo spesso soffocate da una coltre di paura e vergogna.

Non so esattamente quanto tempo passai seduta su quella sedia, potrebbero essere stati tre minuti come quindici. Fu un viaggio al di là di qualsiasi dimensione spaziotemporale. C’eravamo solo io e Marina. C’ero solo io.

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