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Roman Opałka: il cultore dell’infinito

di Aurora Scremin



Alla fine degli anni Sessanta, in un periodo animato da una forte istanza di rinnovamento politico e sociale, si sviluppò una nuova tendenza artistica che vide nell’idea, nel concetto, la vera essenza dell’opera. La cosiddetta arte concettuale, in opposizione con i sempre più dilaganti principi del mondo capitalistico e della logica del profitto, privò le opere della componente materiale e le rese impossibili da mercificare. Un esempio è l’opera One and Three Chairs (1965) di Joseph Kosuth, uno dei primissimi rappresentanti di tale corrente: l’artista espone al MoMA di New York una sedia vera, la riproduzione fotografica a grandezza naturale alla sua sinistra e la definizione della parola “sedia” alla sua destra. Vi starete chiedendo il senso, se questa possa essere davvero considerata arte. Ebbene, sta proprio in questi vostri pensieri lo scopo dell’opera: Kosuth suggerisce allo spettatore la riflessione sul rapporto che lega l’oggetto reale alla sua immagine e alla definizione logica della parola. In fondo si tratta sempre della stessa idea di sedia, ma rappresentata in tre forme diverse.

Ci fu una fetta di artisti concettuali che, seppur ponendo al centro dei loro lavori una riflessione, non rinunciò all’utilizzo dei mezzi tradizionali. Uno di questi è il protagonista di questo articolo: Roman Opałka. Nato nel 1931 in Francia da genitori polacchi, tornò in Polonia nel 1935, per poi venire deportato assieme alla famiglia in un campo di lavoro in Germania fino al termine della guerra. Si trasferì a Varsavia, dove iniziò a studiare grafica, arte e design, ed infine decise di stabilirsi a Parigi. Nel 1965, in linea con il nuovo movimento artistico, diede il via al progetto che avrebbe riempito da quel momento in poi la sua intera esistenza: Opałka 1965 / 1 – ∞. Cominciò a dipingere su una tela, con il pennello a punta fine, numeri in progressione fino a saturarne la superficie; la numerazione non si esauriva qui e proseguiva su un altro supporto, rigorosamente dello stesso formato, che coincideva con la dimensione della porta dello studio di Roman. Per le cifre veniva usato il bianco, per lo sfondo il nero, il quale però, ad ogni cambio di tela, veniva schiarito aggiungendovi l’1% di bianco. Questo procedimento avrebbe portato via via all’annullamento del contrasto necessario per la lettura dei numeri.

A partire dal 1968 Opałka decise di affiancare ad ogni dipinto un autoritratto fotografico in bianco e nero, scattato alla fine di ogni sessione di pittura. Vedendole in sequenza, si nota che le fotografie riportano alcuni elementi fissi: l’espressione, la distanza dall’obiettivo, lo sfondo e la camicia. L’intento dell’artista era quello di testimoniare l’inesorabile scorrere del tempo attraverso le trasformazioni “scultoree” sul suo volto. E c’è di più: dal 1972 Opałka iniziò anche a registrare su nastro la sua voce mentre pronunciava in polacco i numeri che stava dipingendo.

Quest’opera monumentale si concluse nel 2011, anno della sua morte, a quota 5 607 249. Si può, pertanto, dire che questo progetto è il testamento spirituale dell’artista, il modo in cui egli decise di rappresentare se stesso nel continuo divenire dell’esistenza. Attraverso la serie di tele, che intitolò Détail, Roman tentò di “fotografare” lo scorrere del tempo, di restituirne forma visiva attraverso il numero come elemento base di una sequenza continua e potenzialmente infinita. L’obiettivo era quello di arrivare al numero 7 777 777, formula biblica con la quale l’artista avrebbe raggiunto il bianco su bianco, la completa sovrapposizione del soggetto con lo sfondo. In una parola, l’infinito. Tuttavia, Opałka era consapevole che non ce l’avrebbe mai fatta. Soffermandosi sugli autoritratti fotografici, sugli incavi che man mano si manifestano sul volto del soggetto, si coglie la finitezza dell’uomo, il suo bruciarsi al cospetto dell’incommensurabile. In un saggio del 1987, Roman descrisse l’impossibile sfida di dipingere l’infinito come metafora dell’esistenza umana:


“Il tempo che viviamo incarna la nostra progressiva scomparsa. Siamo allo stesso tempo vivi e di fronte alla morte, questo è il mistero di tutti gli esseri viventi.”


Quella di Roman Opałka fu un’impresa epica dove la dimensione umana, artistica ed esistenziale si sono fuse l’una con le altre. Il corpo è diventato materia stessa dell’opera. Egli intingeva il pennello di bianco e, man mano che scriveva, i numeri si facevano sempre più scarichi di colore per poi ricaricarsi nel momento in cui il pennello veniva nuovamente intinto: il dipinto respirava come e con l’artista.

Una delle più grandi aspirazioni dell’essere umano è sempre stata quella di essere immortale, per questo sente l’esigenza di sfogare la paura della propria finitezza nelle diverse arti. Non da ultimo il cinema. Sono, infatti, numerosi i film che dialogano con l’eternità. Uno fra tutti “Adaline – L’eterna giovinezza”, diretto nel 2015 da Lee Toland Krieger.

Nata nel 1908, all’età di 29 anni, Adaline Bowman sopravvive miracolosamente ad un incidente d’auto, ottenendo per una combinazione astrale l’immortalità. Condannata a vivere un eterno presente e a vedere tutti coloro che le stanno attorno invecchiare e morire, Adaline si preclude da ogni possibilità di intraprendere legami profondi e duraturi per sfuggire alla sofferenza che essi comporterebbero nel momento della separazione. Vivere per sempre, dunque, è davvero così desiderabile? A questo punto non credo. Il nostro tempo è speciale proprio perché limitato.


“Per afferrare il tempo, bisogna prendere la morte come dimensione reale della vita. L’esistenza dell’essere non è pienezza ma un ente cui manca qualcosa. L’essere è definito dalla morte che gli manca. Il mio concetto è semplice e compresso come la vita, evolve da una nascita verso una morte.”


Queste le parole di Roman, in occasione della personale alla Galleria Melesi di Lecco avvenuta nel 2009. La nostra vita scorre come i numeri di Opałka sulla tela. Ogni nostro istante contiene tutte le dimensioni del tempo, presente, passato e futuro, e per questo è amalgamato con l’eternità. Siamo frammenti che sfumano in un tutto che li comprende ed è proprio nella coscienza del proprio limite che si percepisce il valore prezioso del nostro tempo finito.


Note bibliografiche

Bartorelli, G. (2017), Studi sull’immagine in movimento. Dalle avanguardie a YouTube, Padova: Coop. Libraria Editrice Università di Padova.

Poli, F. et al. (2008), Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi, Milano: Electa.


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