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  • Immagine del redattoreLe Due Frida

Pulp Fiction di Quentin Tarantino

Un capolavoro senza tempo


di Aurora Scremin

Con questa definizione inizia una delle pellicole che più hanno segnato la storia del cinema, entrando a pieno titolo nell’immaginario collettivo come un vero e proprio cult movie. Stiamo parlando di Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, il quale, se già con il suo film d’esordio Le iene (1992) aveva ottenuto un ottimo riscontro, è con quest’opera che manifesta la cosiddetta “mano del regista”. Dialoghi geniali, violenza portata all’estremo, pratica citazionistica, riferimenti alla cultura pop basata sul consumo massificato e sulla spettacolarizzazione: questi sono solo alcuni dei marchi di fabbrica dello stile di Tarantino. Non è un caso che il titolo del film in questione riprenda la testata di una rivista americana molto in voga agli inizi del ’900, i cui contenuti erano a tema violento e sessuale. La violenza, totalmente decontestualizzata e visibilmente fittizia, è una costante nella filmografia di Tarantino. Stando a ciò che scrive Alessandro Alfieri in Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino (petite plaisance, 2018):


“[…] diventa evidente come l’ipersemiotizzazione tarantiniana riesca a trasfigurare, nelle sue opere simulacrali, la violenza e la crudeltà emancipandole da una dimensione morale, e così facendo ponendole esclusivamente su un piano estetico suscitando persino il nostro divertimento.”


Effettivamente, alla visione di Pulp Fiction lo spettatore si diverte. Non si tratta di sadismo, di cui erroneamente è stato accusato il regista, ma della rappresentazione di una violenza che permette agli spettatori di apprezzarne il valore spettacolare.

Non ci troviamo di fronte ad un film collocabile all’interno di un filone ben preciso, bensì ad un mosaico eterogeneo di generi, dal western al noir, fino alla commedia. Sulla scia di Rapina a mano armata (1955) di Kubrick, Tarantino propone una narrazione non lineare, con continui salti spazio – temporali tra le varie parti dell’opera. Pulp Fiction è suddiviso in tre capitoli, i quali, pur sembrando l’uno estraneo agli altri, alla fine convergono attraverso un procedimento circolare: con una sorta di prologo, il film si apre all’interno della caffetteria Hawthorne Grill, dove troviamo Zucchino e Coniglietta in procinto di rapinare il locale; la stessa scena viene poi riproposta nell’epilogo del film, dove trova la sua conclusione. Tutto è perfettamente studiato, ogni tessera va a prendere il suo posto in un patchwork solo in apparenza caotico. L’azione dei due delinquenti viene congelata e, dopo i titoli di testa, lo spettatore si trova a bordo di un’auto, insieme a Vincent Vega (John Travolta) e Jules Winnfield (Samuel J. Jackson), due gangster al servizio del malavitoso Marsellus Wallace, mentre sono in viaggio per recuperare la valigetta del loro capo rubata da alcuni ragazzi.

Una volta arrivati a destinazione, attraverso una trunk shot, ossia un’inquadratura che parte dal bagagliaio di un’auto, i due vengono ripresi nell’atto di prendere le loro pistole. Segue l’iconico piano – sequenza che accompagna Vincent e Jules lungo i corridoi del condominio: le battute che si scambiano, pur essendo su argomenti frivoli, incantano per la loro brillantezza.

Memorabile, ad esempio, è il dialogo sul massaggio ai piedi di Mia Wallace (Uma Thurman), moglie di Marsellus, fatto da uno scagnozzo. Non è un caso che Tarantino rivolga l’attenzione proprio agli arti inferiori. Egli ne è estremamente ossessionato: in Pulp Fiction, prima ancora di vedere Mia nella sua interezza, lo spettatore vede i suoi piedi scalzi; in Kill Bill, vol.1 (2003), vi è un’alternanza di inquadrature del volto e dei piedi della Sposa che, al risveglio dal coma, cerca di riabilitare gli arti; o ancora in C’era una volta a… Hollywood (2019) moltissime sono le scene in cui gli attori mostrano i loro piedi.

In questo feticismo si potrebbe intravedere un’allusione ai film di Truffaut, uno su tutti L’uomo che amava le donne (1977). Il citazionismo è un trademark di Tarantino e Pulp Fiction lo dimostra perfettamente: il passo fittizio della Bibbia, pronunciato da Jules prima di ogni esecuzione, è preso da Karate Kiba (1976) di Nuchtern; la scelta di Bruce Willis per il ruolo del pugile Butch Coolidge vuole rievocare nella memoria dello spettatore John McClane della saga poliziesca Die Hard; Harvey Keitel, nei panni di Mr. Wolf, sembra essere uscito da Il Padrino (1972) di Coppola; nonché la straordinaria scena di ballo al Jack Rabbit Slim’s tra Mia e Vincent ricorda quella in Bande à part (1964) di Godard e quella tra Gloria e Mario in 8 e ½ (1963) di Fellini.

È proprio all’interno dell’appena citato locale kitsch che Tarantino concentra tutti i suoi ideali citazionisti, partendo dall’ex divo ballerino John Travolta ed attraversando tutto l’immaginario cinematografico pulp degli anni ‘50: i muri sono tappezzati da vere locandine di film di quegli anni, le cameriere sono cloni di Marylin Monroe e Mamie Van Doren, le pietanze prendono il nome da Douglas Sirk, Durward Kirby e Martin & Lewis. Inoltre, è proprio in questa scena che viene anticipato quello che è il film seguente del regista: Mia racconta a Vincent l’episodio pilota da lei girato per la serie Volpi Forza 5, in cui interpreta una killer esperta di spade. E qual è l’arma che usa la Sposa per compiere la sua vendetta in Kill Bill, vol. 1? Ebbene, proprio una katana. Nel corso del film, inoltre, vediamo lo stesso Butch impugnare la spada giapponese per salvare Marsellus da un atto di sodomia, con il proposito di ricevere da questo il perdono per aver sabotato il loro accordo, mandando al tappeto l’avversario durante il suo ultimo incontro di pugilato.

In Pulp Fiction vi è un ulteriore elemento che viene ripreso più tardi in Kill Bill, e non solo: si tratta del marchio di sigarette Red Apple, del tutto inventato dal regista. Il “fake brand” fa il suo esordio sul tavolo di Zucchino e Coniglietta, per poi tornare con regolarità durante tutto il film; in Kill Bill, vol. 1, la Sposa passa di fronte ad un manifesto delle Red Apple; in The Hateful Eight (2015), il prodotto viene presentato nella sua versione messicana; infine, in C’era una volta a… Hollywood, il brand diventa protagonista di una vera e propria campagna pubblicitaria. Grazie a questo espediente, Tarantino raggira la questione del product placement, senza però rinunciare alla passione per la cultura popolare del consumo di massa. Proprio per il loro packaging, le Red Apple potrebbero essere state il soggetto perfetto per un’opera di Andy Warhol, al pari della Coca Cola o delle lattine Campbell.

Molti sono, infine, i riferimenti al cibo, in particolar modo a quello dell’America dei fast food, usato spesso come presagio di morte e di vendetta, ma anche come simbolo di redenzione. Nell’epilogo vediamo Jules e Vincent fare colazione all’Hawthorne Grill, proprio dove all’inizio avevamo lasciato Zucchino e Coniglietta: a seguito del miracolo divino al quale dice di aver assistito, Jules non ordina carne come il suo compagno, bensì una pila di pancake. Nel momento in cui Vincent va in bagno inizia la rapina. In questa sequenza Tarantino usa la tecnica del mexican standoff di Sergio Leone: Jules e la coppia si puntano le pistole contro e la macchina da presa rimbalza da uno sguardo all’altro. Oramai, però, Jules è un uomo diverso, deciso a cambiare vita, ed è per questo motivo che sceglie di lasciar andare i due rapinatori.

Pulp Fiction costituisce l’opera manifesto di Tarantino, un must del cinema postmoderno, di cui ci sarebbe molto altro da dire. È un film da vedere e rivedere, con il gusto di scoprire sempre qualcosa di nuovo, ad eccezione però di una cosa. La valigetta di Marsellus Wallace non è stata una scelta registica fortuita, bensì un esplicito richiamo al noir di Robert Aldrich, Un bacio e una pistola (1955), tratto dal romanzo pulp – sì, avete letto bene – Kiss Me, Deadly di Mickey Spillane. Aldrich esaspera l’espediente del MacGuffin hitchcockiano facendo ruotare l’intera vicenda attorno ad una misteriosa valigetta, il cui contenuto radioattivo non viene mai rivelato. Allo stesso modo, Tarantino non rivela cosa è nascosto dentro la valigetta, ne mostra solo la luminescenza. Questo per mantenere alto il livello di attenzione e per dare spazio all’immaginazione dello spettatore, che curioso si chiede: “Che cosa ci sarà mai di così tanto prezioso dentro la valigetta di Marsellus Wallace?”.


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