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  • Immagine del redattoreLe Due Frida

Così ridevano di Gianni Amelio

Padri e figli: un rapporto tra presenza e assenza


di Aurora Scremin

Così ridevano era il titolo della rubrica di barzellette di uno dei settimanali più popolari del secondo dopoguerra, la Domenica del Corriere. Tutto fuorché divertente si può dire, invece, del film omonimo di Gianni Amelio, vincitore del Leone d’oro alla 55° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nel 1998. Secondo la critica, questo film è l’ultimo capitolo di quella ideale trilogia iniziata con Il ladro di bambini (1992) e Lamerica (1994). Il fil rouge che lega queste tre opere cinematografiche è la tematica del viaggio: quello di un carabiniere calabrese che, partendo da Milano, accompagna l’undicenne Rosetta ed il suo fratellino Luciano in un istituto per l’infanzia in Sicilia; quello di due faccendieri italiani nell’Albania post – comunista agli inizi degli anni ’90; ed infine, quello di due fratelli siciliani che, negli anni ’50 – ’60 del boom economico, migrano a Torino, con la speranza di riuscire a condurre una vita più dignitosa. Nel cinema di Amelio, come in quello di Rossellini, uno dei punti di riferimento, il viaggio fisico che i personaggi intraprendono si fa metafora di un viaggio più profondo, che va a scavare nelle parti più recondite dell’anima. Non si tratta di film di esplicito impegno sociale, bensì di lungometraggi il cui contesto storico non è altro che lo scenario dentro il quale il regista inserisce storie molto più intime e private. Il terrorismo delle Brigate Rosse in Colpire al cuore (1983), il dibattito sulla pena di morte in Porte aperte (1990), nonché la migrazione della popolazione italiana da Sud a Nord in Così ridevano fanno principalmente da sfondo ai personaggi in primo piano. Tuttavia, non si viene a creare una separazione netta tra spazio e figure, ma l’uno interagisce con le altre: lo spazio esprime ed intensifica a livello visivo gli stati d’animo, i pensieri, i sentimenti degli individui. Si potrebbero ritrovare in Amelio gli stilemi tipici delle pellicole neorealiste. Pensiamo ad esempio a Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, la cui vera anima non è la rappresentazione della miseria dell’Italia nel secondo dopoguerra, ma di "come un bambino diventa grande di fronte a suo padre, come insieme riconquistano la dignità perduta attraverso l’umiliazione" (Il vizio del cinema. Vedere, amare, fare un film, Gianni Amelio, Einaudi, 2004). È proprio nella sequenza finale, in cui il piccolo Bruno prende la mano del padre, che risiede il vero senso del film.


Il rapporto padre – figlio, o adulto – adolescente, è uno dei leitmotiv della filmografia di Amelio. Nato a San Pietro Magisano, in provincia di Catanzaro, il 20 gennaio 1945, il regista ancora in fasce viene abbandonato dal padre, che parte (senza mai più tornare) per l’Argentina. Gianni cresce con la nonna materna, che lo incoraggia a studiare fino alla Laurea in Filosofia presso l’Università di Messina. La mancanza paterna lo segna così profondamente da diventare una costante nella sua poetica: da Colpire al cuore, film d’esordio nel mercato cinematografico, fino al suo ultimo lavoro, Hammamet (2020), Amelio riflette sul tema dei figli in rapporto con la paternità, lasciando alla fine sempre un che di amaro ed irrisolto.


In un’intervista di Antonio Vitti (Annali d’italianistica vol.30, Cinema italiano contemporaneo, 2012), il regista afferma:


"[…] da una parte c’è sempre, in tutti i miei film, una profondissima nostalgia del padre, di qualunque padre, anche di un possibile padre; dall’altra parte ci sono i padri che hanno un bisogno fisico, assoluto, spasmodico di un figlio, o comunque di qualcuno a cui trasmettere qualcosa. Diciamo che c’è la paura di morire senza figli."


In Così ridevano l’analfabeta siciliano Giovanni raggiunge il fratello minore Pietro a Torino, per sostenerlo negli studi. Sono gli anni del cosiddetto “miracolo economico italiano”, durante i quali si assiste ad un notevole sviluppo tecnologico – industriale delle regioni settentrionali ed al conseguente spostamento di massa delle persone del Sud alla ricerca di una possibilità di riscatto dalla loro condizione di arretratezza economica. È proprio per questa esigenza morale che Giovanni, nelle veci di un padre morto precocemente, vuole a tutti i costi che il fratello si diplomi, sia per il suo bene, che per quello della famiglia: questo desiderio si rivela essere un’ossessione talmente asfissiante da spingerlo persino oltre i limiti della legalità. Pietro, d’altro canto, non vuole studiare, si dimentica i libri a casa, marina la scuola segretamente. Cerca di nascondersi, di scappare, di sottrarsi alla volontà del fratello, ma inutilmente. Il legame che intercorre tra i due è talmente viscerale, fisico e totalizzante, che finisce per renderli indispensabili l’uno per l’altro, persino interscambiabili: inizialmente è Giovanni che si sacrifica al fine di salvaguardare l’educazione scolastica di Pietro, scendendo letteralmente nei sotterranei bui della malavita e del lavoro disonesto; successivamente i ruoli si ribaltano ed è Pietro a rinunciare alla propria libertà, a macchiarsi di un crimine non compiuto, ad espiare la colpa per preservare il fratello dal carcere. Lo straziante sguardo vitreo ed assente di Pietro, nell’ultima sequenza del film, comunica non solo lo sgretolarsi della speranza di un cambiamento a livello sociale, ma soprattutto il tracollo di un rapporto fraterno, per non dire amoroso, che si logora per la sua incapacità di comunicare e comprendere.


I due protagonisti faticano ad esprimersi e a capirsi. Molti dei loro dialoghi sono poveri di parole, ma ricchi di silenzi, sguardi, respiri ansimanti. In questo, come in moltissimi altri film di Amelio, il non detto diventa un elemento drammaturgico fondamentale. Pensiamo, ad esempio, al silenzio ed alla gestualità delle mani di Emilio in Colpire al cuore: essi si inseriscono prepotentemente negli scambi con il padre e trasmettono, più di quanto le parole riescano a fare, una forte mancanza di comunicazione. Allo stesso modo, in La stella che non c’è (2006), l’operaio Vincenzo Buonavolontà, attraverso l’espressione del volto ripresa in intensi primi piani, lascia intendere di tenere nascosto dentro di sé un passato non sereno, che però non viene mai esplicitato.


Questa predilezione per una narrazione in un certo senso mancante viene tanto più amplificata dal regista nella struttura di Così ridevano: egli rinuncia al racconto classico e cronologico degli eventi e si serve di un montaggio ellittico. Ciò che si propone di fare è narrare sei anni cruciali della storia del nostro Paese (1958 – 1964), sintetizzando ciascun anno in altrettanti capitoli, ognuno dei quali abbraccia un arco temporale di ventiquattro ore. All’inizio di ogni episodio è presente un titolo – Arrivi, Inganni, Soldi, Lettere, Sangue, Famiglie – che ne riassume il senso ed aiuta lo spettatore a cogliere il vero soggetto del film, ossia il rapporto tra i due fratelli, inserito all’interno di un problematico contesto sociale di discriminazione ed esclusione, palesemente precisato nella scritta “non si affitta ai meridionali”, apposta alle porte delle case della metropoli.

A proposito dell’ambientazione del film, la scelta di Amelio ricade sul capoluogo piemontese perché «le mura, i palazzi, le strade di Torino esprimono tutta la loro storia senza però ostentarla: i monumenti, anche i più “eccessivi”, sono come velati da una patina di discrezione» (Così ridevano, Gianni Amelio, Lindau, 1999). La città, con la sua presenza così umida, impalpabile, quasi onirica, non si limita a fare da retroscena alle vicende, ma va ad intensificare quell’aura di mistero che avvolge i due personaggi.


In un certo senso Amelio riporta sul grande schermo quello che Leonardo da Vinci creava nelle sue piccole tele: con la tecnica dello sfumato, il pittore fondeva i contorni delle figure con l’atmosfera circostante, compenetrando così i due elementi. Giovanni e Pietro si rincorrono e si perdono lungo le vie labirintiche del centro urbano. La macchina da presa li segue, talvolta li anticipa, con campi medi e lunghi, controcampi e raccordi di sguardo. Questi movimenti di macchina sono particolarmente visibili nel momento in cui Pietro rincorre il fratello maggiore, allontanatosi violentemente con un uomo: il montaggio interno di questa sequenza traduce a livello visivo una forte tensione emotiva, che arriva al suo apice quando lo sguardo innocente di Pietro viene macchiato dall’azione criminale di Giovanni.

La fotografia di Luca Bigazzi è costruita su contrasti di luce ed ombra. Se prendessimo una qualsiasi inquadratura del film, potremmo notare come la resa luministica evochi in una certa misura quella che Caravaggio adottava nei suoi dipinti. La luce, giocata su neri profondi, diventa rivelatrice di dettagli e particolari potenti e drammatici. Costituisce invece un’eccezione la fotografia dell’ultima sequenza, che, come in Porte aperte, si conclude con una splendente giornata di sole, in netta contrapposizione con quello visto sino ad ora.

In occasione del battesimo del nipote, Pietro, accompagnato da un educatore del carcere minorile siciliano nel quale è detenuto, arriva alla stazione di Torino: la macchina da presa inquadra Giovanni mentre si accosta alla porta del treno ed accoglie i due, Pietro rimane silenzioso fuori campo; ad un certo punto un controcampo, con un punto di vista semi – soggettivo, mostra Pietro di spalle e Giovanni di fronte a lui. "A noi ci possono pigliare solo di spalle", affermava il dodicenne Leonardo, protagonista di La fine del gioco (1970), primo mediometraggio per la televisione di Gianni Amelio. Leonardo, come Pietro, è rinchiuso in un riformatorio e viene scelto da un giornalista per un programma – inchiesta sulle condizioni all’interno delle carceri minorili: il ragazzino sale a bordo di un treno per completare il servizio nel suo paese d’origine, ma, trovandosi dinnanzi ad un uomo freddo e focalizzato unicamente sul suo lavoro, si ribella e si avvale del sonno del giornalista per dileguarsi. Nel finale, nel momento in cui il treno arriva alla fermata, Leonardo viene ripreso di spalle, pronto a varcare la porta d’uscita. È come se il regista non avesse il coraggio di guardarlo in faccia. In modo analogo, Pietro, quando scende dal treno, non viene subito inquadrato frontalmente e ciò crea nello spettatore un senso di apprensione, quasi di timore nello scoprire il volto dell’innocente.


In un’imbarazzante indifferenza e superficialità di Giovanni, la festa di battesimo giunge al termine ed è tempo per Pietro di fare ritorno all’istituto. La chiusura di Così ridevano si può dire essere lo specchio del suo inizio: nei primi minuti del film vediamo un treno in arrivo a Torino e Giovanni scendere, con alle spalle le valigie, pronto a farsi carico del fratello minore e a garantirgli gli studi; specularmente, nell’ultima scena, vi è un treno in partenza da Torino, a bordo del quale questa volta sale Pietro, che si addossa di una pesante responsabilità per permettere al fratello una vita dignitosa. Da una parte un arrivo che porta al raggiungimento di una posizione ben definita, dall’altra una partenza segnata da uno spietato ed ingiusto destino. "Sai come fanno quattro elefanti ad entrare in una Seicento?", aveva chiesto Pietro al figlio di una famiglia pugliese, che aveva aiutato in stazione, nelle prime scene del film. La stessa domanda gli viene posta in conclusione dall’educatore. Nessuna risposta. Nessuna parola. Solo il rumore dello sferragliare del treno. Pietro, appoggiato al finestrino, con i capelli al vento, volge lo sguardo vuoto nella direzione opposta rispetto a quella verso cui è diretto, ossia al fratello, ormai troppo lontano.

Così ridevano potrebbe essere facilmente paragonato a Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti, film ambientato anch’esso negli anni del boom economico. Questa pellicola narra di una madre vedova partita dalla Lucania con quattro dei suoi figli e diretta a Milano, dal figlio primogenito. Ciononostante, il film di Gianni Amelio è da considerarsi solo una rivisitazione dell’opera viscontiana. In Così ridevano c’è molta più spietatezza, molta più crudeltà. La stretto legame tra i due fratelli mostra come l’amore possa diventare un’arma di distruzione, se diventa patologico: Giovanni agisce per il bene di Pietro, non accorgendosi di oltrepassare i confini della legalità e di uscire da rapporti sociali civili, ma finisce per distruggerlo. In un’interessante masterclass, tenutasi nel 2015 alla Filmoteca de Catalunya a Barcellona, il regista aggiunge che il suo film parla anche di mafia, definendola con il termine “familismo”, cioè degenerazione dell’amore familiare. In famiglia ci si ama, ma quando questo amore diventa tanto elitario da escludere l’individuo dalla società, ecco che si inizia a parlare di familismo, e di conseguenza di mafia.

Quello di Gianni Amelio non è un cinema che dà consolazioni o certezze, e Così ridevano ne dà la conferma. L’intera filmografia dell’autore narra di arrivi e partenze, di fughe e ritorni, ma soprattutto di padri e figli. Sono le relazioni umane, i sentimenti più profondi, le fragilità più vere, il nucleo dal quale prendono vita le diverse vicende. Ed è per questo che, nonostante siano ambientati in un contesto storico – sociale ben preciso, i film di Amelio hanno un valore universale, indipendente dallo spazio e dal tempo, adattabili in qualsiasi tipo di realtà.

Concludo con un piccolo estratto del già sopracitato libro Il vizio del cinema, nel quale il regista dichiara:


"Quanto sarebbe più forte il nostro cinema se ci ricordassimo più spesso di Rossellini, se seguissimo i precetti che lui esponeva come pane quotidiano. Non dimostrare: mostrare, osservare, essere curiosi della realtà. Far sì che «i fatti parlino da soli» (Balzac), nel senso che tutto – uomini e cose – va esplorato per ciò che è, senza preconcetti, lasciando che le conseguenze arrivino naturali e non siano una tesi da spiegare. […] Lezione numero uno: stare alla larga dai luoghi comuni."


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