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  • Immagine del redattoreLe Due Frida

La voce umana e la ricostruzione della propria identità

The Human Voice di Pedro Almodóvar


di Aurora Scremin

26 aprile 2021. Il buio è entrato ad albergare nelle nostre case da ormai troppo tempo. Le quattro mura sono diventate un rifugio nel quale trovare sicurezza e, al contempo, una prigione dalla quale voler evadere. C’è un disperato bisogno di far fronte ad una sempre più estesa apatia, paura e solitudine. Ed ecco che qui entra in gioco la magia della sala cinematografica. Si accendono gli amplificatori, si avviano i proiettori ed il grande schermo torna nuovamente a vivere. Quale modo migliore se non con un film dai colori sgargianti e vivaci, tipici del regista spagnolo Pedro Almodóvar? Il cortometraggio The Human Voice (2020), presentato fuori concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, rompe il silenzio, riempiendolo con la sola voce umana. Accade così che un film sembra arrivare come un dono.

Almodóvar riprende in chiave contemporanea la pièce teatrale di Jean Cocteau del 1930, alla quale aveva già fatto riferimento in La Legge del desiderio, ma soprattutto in Donne sull’orlo di una crisi di nervi, dove la protagonista Pepa viene lasciata dal marito e, nell’appartamento in cui tutto glielo ricorda, aspetta con ansia una sua telefonata. È proprio su quest’ultimo punto che si sviluppa il corto di Almodóvar: Tilda Swinton, donna dai lineamenti glaciali – come dimenticare la sua interpretazione della Strega Bianca in Le cronache di Narnia –, attende il fatidico squillo.

Qui Pedro fa della protagonista non una vittima di sé stessa e della propria passione – come, invece, lo è stata Anna Magnani nel celebre episodio di L’amore di Roberto Rossellini – ma una donna che incamera l’abbandono e reagisce, scagliandosi con un’ascia contro un abito dell’uomo disposto sul letto, emblema di assenza. Tilda Swinton è la perfetta incarnazione di una donna che, se in un primo momento si mostra fragile e subalterna, sull’orlo dell’abisso, alla fine diventa più forte, fredda ed autonoma, si muove all’interno dell’appartamento e non si immola sul letto, come invece fa la Magnani, aggrappandosi fino allo stremo a quella voce che sente attraverso il filo telefonico.

La Swinton si riprende la sua indipendenza nella chiusa del film, dove, rivolgendosi al cane, afferma: “Ora sono la tua padrona”. Non è un caso, dunque, che nel film siano presenti citazioni sotto forma di libri e dvd, come ad esempio la copertina gialla del tarantiniano Kill Bill, la cui protagonista si vendica della violenza subita dall’uomo amato. Almodóvar rivendica tutte le malate d’amore lasciate, tradite, ingannate, quelle che restano lì ad aspettare.

I titoli di testa del cortometraggio prendono letteralmente forma dall’unione di attrezzi domestici: una chiave inglese, un martello, un’accetta e così via. Il perché di questa scelta? Ebbene, la telefonata della protagonista non è altro che un processo di ricostruzione della propria identità: da un primo momento di smarrimento, sottolineato dall’ambientazione artificiale e vacua di un teatro di posa, attraverso la voce umana e le sue parole, la donna riesce a prendere consapevolezza di sé e a trasformarsi nella parte attiva del rapporto. Non più sottomessa, ma fiera, capace di far sentire la propria voce, non solamente in una dimensione fittizia, ma nel mondo reale.

Vedere la Swinton muoversi da una stanza all’altra rende difficile il processo di immedesimazione; quello che ne deriva, invece, è una particolare attenzione verso la composizione estetica delle varie scene: è come se, di fronte agli occhi dello spettatore, scorresse una serie di quadri, perfettamente studiati nella forma e nel colore. Si pensi, ad esempio, ad una delle primissime inquadrature del corto, nella quale la protagonista, vestita con un sontuoso abito di velluto rosso, si muove silenziosa e lenta tra le quinte di un set cinematografico.

I colori utilizzati sono essenzialmente quelli primari (rosso, blu e verde), in tutte le loro variazioni, e, attraverso un meditato accostamento, creano armonie o contrasti. Essi si sposano benissimo con le citazioni pittoriche, anch’esse non fortuite, che il regista fa.

Il dipinto di Ettore e Andromaca di De Chirico rappresenta l’ultimo abbraccio tra i due innamorati, ritratti con le sembianze di due manichini senza volto e braccia, prima dell’inesorabile morte dell’eroe troiano. Da una parte, Andromaca perde la propria identità perché privata del suo uomo, la sua unica ragione di vita; dall’altra, Ettore, mutilato, non può dare conforto e protezione alla

sua donna.


Appesa alle pareti dell’appartamento, si intravede anche La Venere dormiente di Artemisia Gentileschi: la dea giace in un interno domestico, proprio come Tilda Swinton perde coscienza sul letto dopo aver assunto un mix di tredici pillole. Il cortometraggio del regista spagnolo, dunque, è un vero e proprio mosaico di citazioni.


L’abbandono, la solitudine, lo smarrimento sono i temi fondanti del film, ma non solo: vi è, inoltre, quello dell’illusione che qualcosa o qualcuno arrivi, quando in realtà non lo fa. L’aspetto illusorio è una caratteristica propria del cinema. “Andare al cinema significa iniziare un’avventura”, afferma Pedro Almodóvar, e poi aggiunge:


“Il lockdown ci ha costretti a restare a casa da soli, a viverla come luogo di reclusione, ma ha dimostrato che la fiction, la finzione, è importante. È stato uno dei modi per riempire il tempo. La finzione, e la cultura, sono assolutamente necessarie”.




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