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Jackie Kay: “I have been somebody else all my life”

di Anna Grespan


Jackie Kay è un'autrice estremamente contemporanea: la sua attualità risiede nella capacità di immergere la sua esperienza personale nell'intera produzione letteraria. La sua vita, infatti, può essere vista come una grande fonte di tematiche controverse del nostro presente: l'adozione, la discriminazione razziale, l'identità birazziale, il femminismo e l'omosessualità. Nonostante ciò, in Italia i suoi libri non hanno raggiunto la popolarità che meriterebbero. Purtroppo, la maggior parte delle sue opere non sono nemmeno state tradotte in italiano, rendendo ancora più difficile la diffusione del suo lavoro. Chissà, forse la società italiana non è ancora pronta ad affrontare certi argomenti in modo diretto e libero? Per questo, ci sembra interessante dedicare uno spazio a questa scrittrice, non molto conosciuta nel nostro paese, ma piena di risorse da scoprire.

Jackie Kay è nata ad Edinburgo nel 1961 da madre scozzese e padre nigeriano. Fu data in adozione ad una coppia scozzese subito dopo la nascita ed è cresciuta a Glasgow. Ha studiato alla Stirling University e la sua carriera iniziò negli anni '80, quando entrò a far parte di diversi gruppi di attivisti ed artisti nel contesto di quello che viene chiamato Black British Renaissance. Si tratta di un movimento politico ed ideologico, il cui obiettivo era mettere in dubbio la definizione condivisa e stereotipata di razza stabilitasi dopo la Seconda Guerra Mondiale. In questo primo periodo del suo percorso artistico, Kay ha collaborato con altri poeti e scrittori in una serie di opere collettive: A Dangerous Knowing. Four Black Women Poets (1984), Charting the Journey. Writings by Black and Third World Women (1988) e Gay Sweatshop. Four Plays and a Company (1989). Queste pubblicazioni sono caratterizzate da una presa di coscienza verso ciò che significa essere nero, la cosiddetta blackness, da istanze femministe e da una decisa critica delle politiche razziste sostenute da Margaret Thatcher.

Glasgow


Dopo i primi lavori provocatori e politicamente impegnati, il resto degli scritti di Kay si orienta verso un'attitudine più positiva nei confronti della comunicazione interraziale. Un esempio è la prima raccolta poetica intitolata The Adoption Papers (1991), nella quale le poesie si concentrano su tre protagoniste femminili: la madre adottiva, la madre biologica e la figlia. In questo caso, è evidente l'influenza delle esperienze personali, che trovano nuova vita grazie alla forma letteraria. Other Lovers (1993) è un insieme di componimenti poetici che tornano su temi legati alla moderna produzione culturale nera, ma i toni risultano attenuati e trovano spazio anche altre tematiche come l'amore, la famiglia e la tradizione scozzese. I brevi versi di In My Country, poesia tratta da questa raccolta del '93, raccontano le difficoltà quotidiane che l'autrice vive in quanto donna di colore e allo stesso tempo scozzese: si resta basiti davanti al senso di inadeguatezza che può scaturire da una semplice domanda come “da dove vieni?”.


In My Country

Walking by the waters,

down where an honest river

shakes hands with the sea,

a woman passed round me

in a slow, watchful circle,

as if I were a superstition;


or the worst dregs of her imagination,

so when she finally spoke

her word spliced into bars

of an old wheel. A segment of air.

Where do you come from?

'Here,' I said, 'Here. These parts.'




Il link rinvia alla pagina web dove è possibile ascoltare l'audio relativo alla poesia, per poter entrare nei suoni, che a volte si scontrano e altre volte si abbracciano, facendoci percepire sulla pelle il senso di ogni parola. Infatti, in Other Lovers si esplora anche l'importante significato della musica come riferimento culturale cardine della diaspora africana. La musica è anche alla base del primo romanzo di Kay, Trumpet (1998). Nello stesso anno, la poetessa scozzese pubblica la sua terza raccolta, Off Colour, focalizzandosi su argomenti a lei cari: l'intolleranza razziale, la discriminazione di genere e l'omofobia. Tratte da quest'opera, leggiamo le due terzine che compongono Somebody Else. Le atmosfere sono molto simili a quelle di In My Country: ritroviamo la mancata appartenenza ad un luogo, la ricerca continua di un'identità, il senso di alienazione verso se stessi e gli altri.


Somebody Else

If I was not myself, I would be somebody else.

But actually I am somebody else.

I have been somebody else all my life.


It's no laughing matter going about the place

all the time being somebody else:

people mistake you; you mistake yourself.


Le poesie che fanno parte di Life Mask (2005) e le storie di Wish I Was Here (2006) presentano dei contenuti affini e ugualmente delicati da approfondire: la perdita, la solitudine e le difficoltà nelle relazioni tra donne.

Nel 2010 esce Red Dust Road, una narrazione autobiografica che racconta l'incontro con il padre biologico in Nigeria e con la madre naturale in Scozia. Kay ha affidato la sua storia a romanzi, come l'ultimo citato, e a poesie, ma ha scritto anche letteratura per l'infanzia e testi teatrali. La sua produzione non si esaurisce qui, in quanto il suo talento è pure al servizio di radio e televisione. Se non vi sembra abbastanza, sappiate che Jackie Kay è anche professoressa di scrittura creativa alla Newcastle University.

Nel 2007, in occasione del bicentenario dell'abolizione della schiavitù, fu chiesto all'artista scozzese di dare il suo contributo scrivendo qualcosa e, inizialmente, Kay non sembra molto entusiasta: ritiene sia già stato detto abbastanza sull'argomento e non vuole sentirsi “etichettata” come la scrittrice di colore dalla quale ci si può aspettare solo scritti relativi a questioni razziali. Poi, però, accetta la proposta ed inizia così un intenso lavoro di ricerche bibliografiche, che la porteranno alla realizzazione di uno dei suoi capolavori: The Lamplighter. Kay recupera alcune testimonianze originali risalenti al XVIII secolo, immergendosi in numerose storie di schiavi africani costretti a lasciare il loro paese per diventare merce di scambio nelle Americhe.

The Lamplighter viene definito dall'autrice stessa “una lettera d'amore ai suoi antenati” ed è difficile da inquadrare all'interno delle classiche categorie di genere: si potrebbe parlare di poema, dramma teatrale o radio play. Quindi, risulta importante evidenziare che non si tratta di un'opera solamente da leggere, sono parole da recitare e ascoltare. Infatti, The Lamplighter viene trasmesso in radio per la prima volta domenica 25 marzo 2007 ed è pubblicato in versione cartacea solo l'anno successivo.

Questo lavoro non convenzionale, autentico ed emotivo è da inserire in quella nicchia della letteratura, chiamata neo-slave narrative, che tenta di dar voce in maniera fedele e pertinente al trauma della schiavitù. Gli autori di queste opere non sono diretti testimoni delle atrocità legate alla tratta degli schiavi, ma si sentono connessi profondamente a quel periodo storico e cercano, attraverso l'immaginazione e l'ingegno narrativo, di ricostruire quel passato traumatico. Jackie Kay apporta delle significative innovazioni nell'ambito di questo filone letterario: l'uso della poesia, invece del romanzo, la forma tipicamente utilizzata nelle cosiddette neo-slave narratives; la divisione in scene, come succede nei drammi teatrali; da un punto di vista tematico e politico, l'enfasi sul coinvolgimento della Scozia nel commercio di schiavi; per ultimo, la struttura polifonica e frammentata.

Questo “pezzo” di storia dell'umanità molto spesso ignorato viene esplorato tramite le diverse, ma intrecciate, esperienze di quattro donne africane: Constance, Mary, Black Harriot e Lamplighter. Un altro personaggio fondamentale è Anniwaa, una bambina catturata dagli schiavisti, strappata alla sua famiglia ed imprigionata nella fortezza di Cape Coast in attesa di attraversare l'oceano in condizioni disumane. Si scoprirà verso la fine del poema che Lamplighter e Anniwaa sono in realtà la stessa persona che, a causa dell'enorme sofferenza, si sente “divisa” tra il passato di schiava e il presente di ritrovata libertà. All'inizio di The Lamplighter sentiamo proprio la voce di Anniwaa, che, rinchiusa nella prigione affacciata sull'Atlantico, ricorda l'ultima volta in cui ha visto la madre e non riesce a spiegarsi il motivo della sua presenza in quel luogo buio e spaventoso:


“I am a girl. I am in the dark. I don’t know how long I’ve been kept in the dark. High above me, there is a tiny crack of light. Last time I counted, I was eleven, nearly twelve. I am a girl. Last time I saw my mama, I was carrying a water gourd on my head. The water was sloshing-sloshing all over my clothes. Mama was clapping her hands and laughing at me. I am frightened of the dark. I don’t know where I am. I don’t even know why I’m here.”


Questo incipit caratterizzato dalla voce sottile e disperata di una bambina permette di coinvolgere lo spettatore in modo immediato nell'orrore e nell'insensatezza del commercio di esseri umani, non solo adulti, ma anche i più deboli e indifesi come i minori.

Prigione di Cape Coast, Ghana


Le storie delle donne protagoniste presentano delle affinità che riguardano l'oppressione, la prigionia, la discriminazione razziale, la violenza sessuale, il lavoro forzato e la dolorosa necessità di ricordare e raccontare. Il dialogo che si forma tra queste vite “spezzate” è interrotto di frequente dall'unico personaggio maschile dell'intera opera: MacBean, il mercante di schiavi, che rappresenta il punto di vista dell'oppressore al sostegno della schiavitù.

Passando velocemente a rassegna il lavoro e la vita di Jackie Kay, ci accorgiamo subito che questa meravigliosa autrice sfrutta molteplici mezzi comunicativi, stili, generi e forme in un'ottica sempre nuova e mai scontata e l'obiettivo principale, come ci dimostra soprattutto in The Lamplighter, è quello di fornire una reinterpretazione etica e politica di un passato drammatico e di un presente ancora inevitabilmente legato a quel passato.


Note bibliografiche

Gee, M. (2010), “Stories and Survival. An Interview with Jackie Kay”, Wasafiri, pp. 19-22.

González, Carla R. (2015), “Re-charting the Black Atlantic: Jackie Kay’s Cartographies of the Self”, Études écossaises, pp. 103-119.

Kay, J. (1993), Other Lovers, Eastburn: Bloodaxe Books Ltd.

Kay, J. (1998), Off Colour, Eastburn: Bloodaxe Books Ltd.

Kay, J. (2007), “Missing Faces”, The Guardian, 24 March 2007.

Kay, J. (2008), The Lamplighter, Eastburn: Bloodaxe Books Ltd.

Muñoz-Valdivieso, S. (2012), “Neo-Slave Narratives in Contemporary Black British Fiction”, ARIEL: A Review of International English Literature, pp. 43-59.

Nadalini, A. (2011), “A New British Grammar: Jackie Kay's The Lamplighter”, Black Arts in Britain, pp. 51-65.

Oboe, A. (2012), “Arte di tenebra? Paul Gilroy e il discorso razziale nella cultura inglese contemporanea”, Scritture migranti, pp. 235-246.

Tournay-Theodotou, P. (2014), “Love Letter to My Ancestors: Representing Traumatic Memory in Jackie Kay’s The Lamplighter”, Atlantis:Journal of the Spanish Association of Anglo-American Studies, pp. 161-182.



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